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GL'INDIANI
Ieri è venuto un indiano a parlare nel campus, è il capo d'un gruppo «nativo americano» in cui so che ci sono anche molti poeti Tapahonso, Momaday, Simon Ortiz e Ray Young Bear, donne e uomini tutti ormai rassegnati ad essere americanizzati da non americani
che
arrivarono già con le ambizioni di fare da padroni. «Puoi capire il perché», mi domandò uno di quei poeti indiani, «qui si parla continuamente dei genocidi di Stalin ma non si dice niente o si dan dati sbagliati sugli schiavisti americani che ci hanno sterminati ?» Lui il perché lo sapeva, il suo era soltanto uno sfogo che non mi pareva fatto in tono rabbioso. Anche lui come l'altro «nativo .amerlcano» venuto ieri nel campus a fare un discorso vano, era tutto addobbato con del trucco indiano, e tutti e due, poveracci, mi sembravan pagliacci giullari di padroni che forse si credon buoni perché gli danno la libertà di vestirsi col folklore d'un'antica civiltà ormai senza alcun valore in questo «mondo nuovo» razzista e distruttore. Il poeta mi disse alcuni suoi versi noti «È così che sopravviviamo quando sostiamo e guardiamo canyons montagne piante e i tanti luoghi vuoti dei nostri antichi campi, noi li misuriamo attraverso memorie e ai nostri figli raccontiamo le storie del nostro vero passato con fedeltà e precisione, però senza rabbia senza indignazione, se passione è lotta e rivendicazione forse non abbiamo più neanche passione, ma è così, solo così, che sopravviviamo. »
22 ottobre 1988
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